Il complesso Pascoli-Diaz-Pertini (sui nomi delle scuole c’è sempre stata gran confusione, ma per comodità vengono indicate come Diaz la scuola dormitorio, mentre come Pascoli la scuola del media center) è costituito da due edifici contenenti vari istituti che, nel luglio 2001, vengono assegnati Genoa Social Forum (GSF) per realizzare il centro stampa e avere un luogo fisico di confronto e di “training” dove vari gruppi potessero fare i propri “allenamenti” per i presidi e per le azioni – oltre che come dormitorio (anche se in realtà questo sarà un uso improprio che non sarà possibile impedire).
I 4 piani della Pascoli ospitano una sala stampa e una palestra/infermeria nel seminterrato, una stanza di supporto legale e medico (oltre agli uffici di comunicazione del GSF) al primo piano i media alternativi al secondo piano,Indymedia al terzo piano e alcune strutture di segreteria - come fotocopiatrici e via dicendo - al quarto piano, da cui si accede al terrazzo.
Nella Diaz la palestra è adibita a zona di training, con un piccolo corridoio e uno stanzino sulla destra dell’ingresso come luogo di accesso pubblico a Internet. Rapidamente, la scuola diventa anche un dormitorio per manifestanti che non hanno trovato altro luogo dove dormire.
Durante tutta la settimana decine di hacker e mediattivisti mandano avanti la baracca, consentendo a operatori media di ogni sorta di raccontare quello che sta avvenendo a Genova.
La sera di sabato 21 luglio, mentre molti manifestanti che dormivano nella Diaz stanno decidendo di tornare a casa la sera stessa, compaiono alcuni plotoni della polizia in piazza Merani, la piazzetta a monte di via Cesare Battisti, dove si trovano le due scuole. Da lì muovono a passo di marcia e invadono sia la Diaz che la Pascoli. Sulla loro strada trovano un mediattivista che viene pestato a sangue e lasciato in fin di vita.
Nella Pascoli la furia dei poliziotti si sfoga quasi subito contro i computer di legali, medici e mediattivisti, oltre che, limitatamente, contro le persone, che vengono fatte sedere contro il muro e con la faccia al suolo mentre i locali vengono perquisiti. Nella Diaz è una carneficina. All’irruzione segue la caccia all’uomo angolo per angolo del palazzo. Rapidamente, si sparge la voce e fuori dalle due scuole si affollano i giornalisti. Nella Diaz vengono arrestati tutti i 93 presenti (alcuni sono riusciti miracolosamente a scappare). 71 sono feriti e tre in condizioni gravissime, di cui uno in fin di vita. 75 di loro, compresi tutti i feriti meno gravi, sono portati alla caserma di Bolzaneto. Per ore si sussegue l’uscita delle barelle e il trasferimento sui cellulari delle persone che escono sulle proprie gambe, mentre all’esterno si alzano cori di “Assassini, Assassini”, soprattutto quando le forze dell’ordine fanno uscire un sacco nero con “il materiale sequestrato” (in gran parte di proprietà della ditta edile Tecnoconsul), che viene scambiato con un cadavere. Ormai a notte fonda le forze dell’ordine si ritirano.
La mattina, in una conferenza stampa in Questura, i 93 arrestati sono accusati di essere parte di una organizzazione internazionale “finalizzata alla devastazione e al saccheggio”. I primi agenti entrati sarebbero stati aggrediti “a mano arma ta” e all’interno della scuola si sarebbero ritrovate “pericolose armi”. Presto molte di queste affermazioni si dimostreranno false, e cadranno tutte le accuse nei confronti degli arrestati, ma solo due anni dopo si riveleranno falsi anche il ritrovamento di due bottiglie incendiarie e il tentato accoltellamento di un poliziotto.
L’irruzione alla scuola Diaz venne decisa dai massimi vertici della polizia presenti a Genova per il G8, in una riunione tenuta la sera del 21 luglio 2001, dopo due giorni di scontri con un morto, cen tinaia di feriti e pochi arresti, nella stanza del questore Colucci. A presiederla c’era il prefetto Arnaldo La Barbera, capo della Polizia di Prevenzione, arrivato quel pomeriggio da Roma.
Presenti Gratteri (capo dello SCO), Caldarozzi (suo vice), Murgolo (vicequestore di Bologna), Mortola (capo Digos Genova) e dalle 22,30 in poi anche Canterini (capo Reparto Mobile Roma).
Tutti funzionari che si ritroveranno nella scuola: il via libera lo diede Gianni De Gennaro, per telefono. Più che una perquisizione, che infatti non si fece, fu decisa una retata: volevano fare il massimo numero di arresti a fronte di un bilancio disastroso per l’ordine pubblico. È noto che il vicecapo della polizia, il prefetto Ansoino Andreassi, manifestò le sue perplessità e non partecipò alla riunione operativa.
Del resto, inviando a Genova La Barbera, De Gennaro l’aveva praticamente sfiduciato. L’operazione, ufficialmente giustificata con la sassaiola che avrebbe colpito le auto di una pattuglia di Polizia, si concluse con 61 feriti sui 93 manifestanti trovati nella scuola, che per lo più dormivano. Secondo il decreto di archiviazione delle accuse a loro carico, a parte chiudere cancello e portone (sfondati) non opposero una significativa resistenza. Tutti e 93 furono arrestati per “associazione a delinquere finalizzata alla devastazione e al saccheggio”, in base ai verbali di perquisizione e sequestro che attestavano il ritrovamento di “armi improprie” e di due molotov. Ma i giudici genovesi non convalidarono gli arresti.
Le udienze preliminari - che si sono aperte sabato 26 giugno 2004 e chiuse il 13 dicembre - hanno visto tra i 28 imputati uomini vicinissimi al capo della polizia, come Francesco Gratteri, promosso alla testa dell’antiterrorismo giusto in tempo per essere presentato come il castigatore delle nuove BR. Dirigenti di primo piano come il capo degli analisti della polizia di prevenzione, Gianni Luperi (coordinatore della task force europea che indaga sugli anarchici); investigatori come Gilberto Caldarozzi (ex vice di Gratteri allo Sco), Filippo Ferri (dalla squadra mobile di La Spezia alle indagini sull’omicidio Biagi) e Fabio Ciccimarra (imputato anche a Napoli per le violenze sugli arrestati nella caserma Raniero). Si tratta di funzionari che hanno decine di agenti alle loro
dipendenze e che, ad eccezione di Luperi, provengono tutti dal mondo delle squadre mobili e della lotta alla criminalità comune e organizzata, a cominciare da Gratteri e dallo stesso De Gennaro. Devono rispondere di falso e calunnia, essenzialmente per la vicenda delle due molotov fasulle, insieme agli altri firmatari dei verbali della Diaz, da Mortola al vicequestore Massimiliano Di Bernardini (nucleo antirapine, squadra mobile di Roma), al vicequestore Pietro Troiani e all’ex agente Antonio Burgio, che maneggiarono quelle due bottiglie prima che finissero nelle mani dei dirigenti, ripresi nel cortile da una provvidenziale telecamera.
Per il pestaggio all’interno della Diaz sono imputati di lesioni personali in concorso Vincenzo Canterini, Michelangelo Fournier (suo vice al reparto mobile di Roma) e gli otto capisquadra (Fabrizio Basili, Ciro Tucci, Carlo Lucaroni, Emiliano Zaccaria, Angelo Cenni, Fabrizio Ledoti, Pietro Stranieri e Vincenzo Compagnone). Le immagini, le dichiarazioni di Gratteri davanti alla
commissione parlamentare e le stesse relazioni di servizio dei capisquadra, incrociate con le deposizioni dei pestati, che in qualche caso hanno potuto riconoscere le divise, indicano che i settanta celerini romani, tutti dello speciale Nucleo Antisommossa creato prima del G8, sono sì entrati per primi, ma che al pestaggio hanno preso parte decine di poliziotti in divisa e in borghese, mai identificati. Ed è per questo che la Procura di Genova ha chiesto l’archiviazione delle accuse contro gli agenti semplici di Canterini. Uno di loro, Massimo Nucera, è accusato però di falso e calunnia per aver denunciato di aver ricevuto una coltellata da un occupante della scuola mai identificato, e per avere simulato il taglio sul suo giubbotto. Un ultimo gruppo di funzionari e agenti è chiamato a rispondere di perquisizione arbitraria, danneggiamento, furto e lesioni personali per aver fatto irruzione nella scuola davanti alla Diaz, la Pascoli, che ospitava il media center del Genoa Social Forum. Computer distrutti, hard disk portati via, materiale sequestrato. Gli imputati sono Salvatore Gava, capo della mobile di Nuoro, il napoletano Alfredo Fabbroncini e il “mobiliere” romano Luigi Fazio, quest’ultimo accusato anche di percosse a un giovane tedesco. Durante l’audizione davanti alla commissione parlamentare d’indagine sul G8, Gratteri si era assunto la responsabilità di quanto avvenuto alla Pascoli, perché era stato lui a dare ordine di perquisire anche lì.
L’inchiesta sulla perquisizione alla Diaz è cominciata quando i giudici genovesi, dopo aver ascoltato gli arrestati, hanno rifiutato di convalidare gli arresti e di trasmettere gli atti alla Procura della Repubblica. Nel frattempo De Gennaro è stato costretto a nominare tre super-ispettori per altrettante rapidissime indagini amministrative interne: una sugli incidenti di piazza, una sulle sevizie nella caserma di Bolzaneto e una, appunto, sulla Diaz, affidata al Questore (oggi Prefetto) Giuseppe Micalizio. In pochi giorni Micalizio ha concluso che l’operazione era stata organizzata male e che le violenze ingiustificate si erano effettivamente verificate. Sulla scorta delle sue conclusioni partono tre provvedimenti di peso: vengono rimossi dai loro incarichi il vicecapo vicario della Polizia Ansoino Andreassi, il numero uno dell’antiterrorismo Arnaldo La Barbera e il questore Francesco Colucci. In pratica, tutti i responsabili che, quella notte, si erano dichiarati contrari all’irruzione nella scuola. Per Canterini viene proposta la destituzione (o licenziamento) dalla Polizia di Stato – provvedimento, per altro, mai preso in considerazione concretamente. Sulle prime – si parla ormai di fine luglio/agosto 2001 - nessuno viene iscritto nel registro degli indagati. Allo stato attuale, i poliziotti possono essere ascoltati al limite come testimoni. Comincia subito un braccio di ferro tra il Procuratore Capo Francesco Meloni, spalleggiato dall’aggiunto Francesco Lalla - che prenderà il suo posto nel 2003 - e i sostituti che si occupano direttamente del caso, Enrico Zucca e Francesco Pinto, ai quali si aggiungono Francesco Cardona Albini, Monica Parentini, Stefania Petruziello e Vittorio Ranieri Miniati. La Polizia pratica l’ostruzionismo: ancora oggi non esiste una lista com
pleta dei 270 poliziotti che presero parte al blitz. E ci vogliono mesi per identificare i 14 firmatari dei verbali: 13, anzi, perché una firma rimarrà per sempre illeggibile. Qualche mese dopo, però, Canterini e tutto il reparto vengono messi sotto inchiesta per concorso in lesioni personali.
Una vera svolta arriva nel novembre 2001. I PM rilevano che Pasquale Guaglione, vicequestore a Gravina di Puglia (Bari) e in servizio a Genova per il G8, aveva riferito di aver consegnato a reparti della Polizia due bottiglie molotov rinvenute in corso Italia durante i disordini nel tardo pomeriggio del 21 luglio. Guaglione l’aveva scritto nella relazione di servizio, mancava però il verbale di sequestro delle due molotov, considerate armi da guerra. E l’assenza di questo verbale ha insospettito i PM Pinto e Zucca, che hanno deciso di fare interrogare Guaglione per rogatoria dalla procura di Bari, utilizzando un piccolo trucco investigativo: al funzionario sono state mostrate le bottiglie incendiarie sequestrate alla Diaz, senza dirgli che erano quelle della scuola, e chiedendogli invece se erano quelle che aveva trovato in corso Italia. Guaglione le riconosce subito come
quelle scoperte dalla sua pattuglia, perché ricordava le etichette di noti vini. Altro particolare, Guaglione ha riferito ai PM di non averle consegnate a un celerino qualsiasi, ma al dirigente Valerio Donnini, che era a Genova come responsabile di tutti i reparti celere (oltre ad essere “padre” del nucleo antisommossa entrato alla Diaz).
Il questore, durante la riunione con La Barbera, chiama proprio Donnini per mobilitare quel nucleo per entrare nella scuola. E proprio sulla jeep Magnum di Donnini, guidata dall’ex agente Antonio Burgio, con a bordo il vicequestore Pietro Troiani, le due bottiglie incendiarie sono finite alla Diaz. I PM l’hanno saputo da Burgio (lo stesso autista di corso Italia), che si dice pentito di quello che gli hanno fatto fare e per questo si è dimesso dalla Polizia, dove peraltro non si sarebbe mai liberato del marchio dell’infame.
Nel maggio del 2002 i PM ricevono la perizia del RIS (Reparto Investigazioni Scientifiche) dei Carabinieri, relativa al giubbotto e al corpetto antiproiettile del Nucera, il quale aveva dichiarato di aver ricevuto una coltellata da un manifestante durante l’irruzione alla Diaz. Nella relazione del colonnello Garofano, a pagina 16, si legge che le prove sperimentali di taglio effettuate hanno sempre dimostrato, al contrario di quanto osservato sui reperti, un pressoché perfetto allineamento tra le lacerazioni presenti sul giubbotto e quelle sottostanti prodotte sul paraspalle. Al contrario, scrivono i carabinieri a pagina 19, i tagli presenti sul giubbotto non risultano allineati a quelli sottostanti presenti sul paraspalle. Esiste pertanto una evidente incompatibilità tra i tagli presenti sugli indumenti in reperto e quelli ottenuti sperimentalmente secondo le dinamiche che
è stato possibile evincere dalle affermazioni del Nucera. L’agente, a quel punto, non potrà far altro che cambiare versione: il 7 ottobre 2002, a 15 mesi dai fatti, dirà che la coltellata non era stata una sola (come aveva affermato in modo nettissimo e per ben due volte, prima nell’annotazione di servizio e poi davanti ai PM che lo ascoltavano come persona offesa) ma in realtà erano state due. Successivamente, con la procedura dell’incidente probatorio, interverrà una seconda perizia, affidata dal giudice al dottor Carlo Torre, già responsabile di aver inquinato l’indagine sull’omicidio di Carlo Giuliani suggerendo la tesi del calcinaccio assassino che avrebbe deviato il proiettile del carabiniere Mario Placanica. A giudizio di Torre il secondo racconto di Nucera è compatibile con i tagli riportati su giubbotto e paraspalle. Per i periti delle persone offese gli indumenti riportano lacerazioni che fanno pensare ad almeno quattro distinti colpi.
Ma il centro dell’indagine è ormai la vicenda delle due bottiglie incendiarie.
Nel giugno del 2002 i PM hanno individuato un filmato dell’emittente genovese Primo canale, che mostra un gruppo dei funzionari più alti in grado con il sacchetto azzurro contenente le due bottiglie molotov, nel cortile della scuola Diaz. Si capisce, quindi, in quali mani sono finite le due bottiglie, portate fin lì da Burgio su ordine di Troiani. Attorno al sacchetto azzurro il video mostra Luperi, Caldarozzi, Murgolo, Gratteri, Canterini. Passa di lì anche La Barbera. Nessuno di loro, fino a quel momento, aveva ammesso di aver visto le molotov nel cortile; al massimo le hanno viste in un momento successivo. Comunque, senza sacchetto. Il 31 luglio i PM si fanno ripetere queste dichiarazioni, poi spengono la luce e mostrano il video agli indagati.
Luperi, dopo aver visto quella scenetta, perde la parola: da quel momento si rifiuta di rispondere.
Gratteri risponde ancora e se la prende con il reparto di Canterini, secondo la linea di difesa concordata con De Gennaro. La richiesta di rinvio a giudizio, a questo punto, è inevitabile.
L’unico che si salva è Murgolo, l’ex vicequestore di Bologna oggi dirigente del Sismi, il servizio segreto militare. I PM chiedono l’archiviazione perché Murgolo era lì solo per rappresentare il prefetto Andreassi, rimanendo al di fuori delle due catene di comando individuate dall’indagine: quella degli uomini delle squadre mobili, facente capo ai dirigenti dello SCO (Gratteri e
Caldarozzi), e quella degli uomini della Digos, facente capo ai dirigenti della polizia di prevenzione, La Barbera e Luperi. Tutti costoro, in ogni caso, evitano le accuse relative al pestaggio perché sono riusciti a dimostrare ai PM di essere arrivati dopo l’irruzione. Gli interrogatori hanno chiarito che le molotov sono arrivate nel cortile perché ce le ha portate Burgio, su ordine di Troiani, che ancora oggi non si sa bene cosa facesse lì. Ufficialmente non era tra i partecipanti alla perquisizione. Secondo Troiani, assistito dall’avvocato Alfredo Biondi (senatore di Forza Italia ed ex ministro della giustizia), le due bottiglie sono finite in mano a Massimiliano Di Bernardini, suo pari grado, vice-questore aggiunto a capo del Nucleo Antirapine della Squadra Mobile di Roma. Di Bernardini ha invece negato di averle prese, ha ammesso solo di averle viste nel cortile in mano ad altri. I due hanno mantenuto versioni diverse anche se la Polizia faceva di tutto perché si mettessero d’accordo: quando la Questura di Roma ha notificato a Troiani la convocazione dei PM genovesi, gli ha fornito anche il numero di cellulare di Di Bernardini. È comunque accertato che le bottiglie sono arrivate a Calderozzi, vice di Gratteri allo SCO e dunque superiore diretto di Di Bernardini (alla Diaz gli uomini delle squadre mobili dipendevano da Gratteri e da Caldarozzi). E Caldarozzi effettivamente compare nel filmato del cortile.
Tutti gli indagati si difendono sostenendo di non aver preso parte a nessun disegno calunnioso.
Fanno però una gran fatica a sostenere che nessuno di loro,pur essendo tutti investigatori esperti, si è informato sulla precisa provenienza di quelle “armi da guerra”. Dove erano state trovate? Da chi? Nei verbali, scritti da Ciccimarra e Ferri e firmati anche da Caldarozzi, si legge che le bottiglie sono state rinvenute all’interno della scuola, nella palestra al piano terra, in modo che risultassero nella disponibilità dei 93 occupanti arrestati.
E questa informazione, al termine dell’indagine, è risultata falsa e calunniosa. Non è l’unica, peraltro: nei verbali le stecche degli zaini sono indicati come spranghe, armi improprie, e un ricco catalogo di altri oggetti atti a offendere è ricavato dagli attrezzi di un cantiere, rimasto chiuso fino all’arrivo della Polizia. Il 13 dicembre 2004 il Giudice dell’Udienza Preliminare Daniela Farraggi ha rinviato a giudizio tutti i 28 imputati per tutti i capi di imputazione.
Il 6 aprile 2005 si apre il processo di primo grado che rischia di avere un iter piuttosto travagliato considerato che il giudice della sezione a cui è stata affidata è sospeso tra pensionamento e trasferimento. Alla fine, cambia la Corte e si procede, nell’estate 2005, a fare entrare il processo nella sua fase dibattimentale: nelle ultime udienze il GSF viene accettato come parte civile.
Status
Al momento il dibattimento della Diaz è in corso da due anni: sono transitati sul banco dei testimoni tutti i ragazzi pestati e arrestati quella notte, infermieri e medici che sono intervenuti sul posto, persone presenti all’interno della Pascoli, vicini abitanti nei palazzi adiacenti alle due scuole, giornalisti e teleoperatori che hanno ripreso le scene in quelle ore.
Soprattutto sul banco degli imputati sono transitati i RIS, nonché esperti della scientifica, i poliziotti che controvoglia (salvo poche eccezioni) hanno dovuto investigare sui propri colleghi.
Il dibattimento non ha lesinato colpi di scena: tra gli altri sono da ricordare la scomparsa delle bottiglie molotov corpo di reato sia di questo processo sia di quello finito con una completa archiviazione contro i 93 arrestati della Diaz. L’ufficio della questura a cui erano state affidate, in particolare sotto la direzione di uno degli imputati, il dr. Mortola (sic!), ha scoperto che i due reperti sono stati distrutti per errore come si fa con tutti i reperti pericolosi. Non è sfuggito alla corte, né a chi segue un po’ i processi, che per distruggere due reperti è necessario un atto ufficiale di incarico da parte di un pm o di una corte, cosa che in questo manca. Inutile dire che la figura dell’imputato in questione e di tutta il corpo della polizia non è stata delle migliori.
Inoltre sul banco dei testimoni sono passati i più alti vertici della polizia: l’attuale vice capo della polizia Antonio Manganelli, che si è limitato a fare la difesa d’ufficio dei dirigenti implicati nel processo e a sminuire gli avvenimenti; l’ex vice capo della polizia italiana Ansoino Andreassi, fatto fuori proprio a Genova dal grande capo De Gennaro, è fortunatamente venuto a smentire la
patetica operazione dell’ex Questore di Genova Colucci che in aula aveva cercato di accollare tutte le colpe all’attuale forza del sisde Lorenzo Murgolo (per non ben comprensibili a noi mortali questione interne al corpo).
Andreassi non solo ha smentito la tesi murgoliana di Colucci (che è finito sul registro degli indagati per la sua scandalosa deposizione con l’accusa di falsa testimonianza), ma ha anche confermato quello che tutti sapevano: in quei giorni un’operazione del genere era chiaramente tesa a bilanciare la magra figura fatta dalla polizia italiana nei giorni precedenti, una vera e propria retata per ripicca e vendetta, alla ricerca di una ribalta da cui giustificare la gestione dell’ordine pubblico durante i giorni del G8. Nessuno come Andreassi, ormai in pensione e fuori dai giochi, l’aveva messa già così nuda e cruda.
In ogni caso per chi ha fiuto la strategia degli apparati di sicurezza su questo processo è chiara: condannare il reparto mobile per lesioni, dare due soldi ai manifestanti, e assolvere (se va male per insufficienza di prove) i dirigenti della PS coinvolti. Tutti contenti e a casa.
Si spiega così perché Canterini e Fournier (capo e vicecapo del VII Nucleo del Reparto Mobile di Roma principale indiziato dei pestaggi all’interno della Diaz), si sono dati disponibili a farsi esaminare da corte e pm. Canterini sguscia come un’anguilla sulle domande, i suoi difensori si mettono informalmente d’accordo con i pm per acquisire le sue precedenti dichiarazioni (per non infierire in aula sul buon Vincenzo), salvo poi sottrarrsi al gentleman agreement, e non dare il proprio consenso all’acquisizione.
Risultato: furia del tribunale, dei pm, e di tutti coloro dotati di senso civico.
Michelangelo Fournier è di una pasta diversa da Canterini: lui è il poliziotto che in tutte le testim nianze viene ricordato come quello che arrivato al primo piano della scuola in mezzo ai pestaggi, grida “Basta! Basta!” ai propri sottoposti e non solo. Fournier conferma di aver visto scene inaccettabili, da “macelleria messicana” nella scuola, di aver taciuto per anni per spirito di corpo. Fournier non si risparmia anche se cerca di deviare il colpo per i suoi ragazzi affermando che lui ha visto picchiare solo quelli di altri reparti. In ogni caso la notizia fa finalmente breccia nei quotidiani che sembrano aver dimenticato che metà dei quadri dirigenti della polizia sono sotto processo.
I testimoni dell’accusa sono terminati, e con la ripresa autunnale anche quelli delle parti civili. Da dicembre del 2007 a oltranza ci saranno i testimoni delle difese che sembrano scoprire ora la necessità di coordinarsi. La maggior parte dei reati (a parte il falso ideologico) è sul filo della prescrizione, e non ci fidiamo delle affermazioni demagogiche degli avvocati Di Bugno e Porciani che sostengono che i loro clienti rifiuteranno la prescrizione perché non temono nulla. Il processo è sempre più vivo e i protagonisti continuano a essere promossi (ultimo in ordine di tempo Giovanni Luperi diventato vice capo dell'AISI, il nuovo nome del SISDE, il servizio segreto civile italiano).
Chi vivrà vedrà.