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[il manifesto] La vendetta delle molotov scomparse

La «prova falsa» che giustificò la Diaz, un artificiere capro espiatorio e l'inchiesta dei pm
La vendetta delle molotov scomparse
Simone Pieranni

«Quelli della Digos avevano detto "ah ce le riprendiamo"». Marcellino Melis, responsabile del nucleo artificieri della Digos genovese, mentre attende una chiamata, parla con un suo collega delle bottiglie molotov scomparse. Ricorda la loro presenza dentro un sacchetto. E conclude: «Però non lo posso dire al magistrato». E infatti Melis, ascoltato dal pool di pm che indagano, contro ignoti, sulla sparizione delle molotov della Diaz, non dice niente. Per questo, alla luce delle intercettazioni in possesso della magistratura, è l'unico iscritto nel registro degli indagati, per false dichiarazioni ai pubblici ministeri.
Tutto inizia il 17 gennaio 2007: i difensori dei poliziotti a giudizio chiedono di poter vedere le famose molotov affinché siano convalidati gli eventuali riconoscimenti in aula. Le bottiglie però non si trovano più. Il presidente Barone decide che varranno i riconoscimenti fotografici, ma la tensione sale. Parte un'indagine interna alla questura di Genova, chiusa in fretta e furia in pochi giorni. De Gennaro, allora capo, manda a indagare nel capoluogo ligure Giuseppe Maddalena, dirigente di polizia e direttore interregionale per il Piemonte, Liguria e Val D'Aosta. La conclusione è tra il laconico e il fatalista: le bottiglie devono essere state distrutte per sbaglio. Viene fornita la cronistoria della loro esistenza: il 6 agosto 2001 le molotov sono repertate all'interno del fascicolo contro i 93 manifestanti pestati e poi arrestati alla Diaz; il 16 agosto le prende in consegna l'artificiere Melis e le porta in questura: è la prassi per il materiale ritenuto potenzialmente pericoloso; il 28 agosto vengono portate alla polizia scientifica: i tecnici devono effettuare i rilievi per le impronte digitali; il 10 settembre 2001 la scientifica trasmette i rilievi a Dominici, dirigente della squadra mobile di Genova, che li invia alla Procura; tra il 9 e il 14 settembre 2001, per ordine del procuratore capo di Genova, Francesco Lalla, presso lo stadio Carlini viene fatto brillare materiale esplodente di varia natura. Poi il nulla.
Nel documento della questura genovese si lascia intendere che le due bottiglie molotov potrebbero essere state distrutte per errore, indicando il nome dell'artificiere, tale Marcellino Melis, come probabile sbadato del caso. Quest'ultimo, in realtà, nelle sue consuete relazioni sulle sue attività, annota tutto in modo molto preciso: è stato anche ascoltato nel procedimento contro i 25 manifestanti condotto dai pm Canepa e Canciani. Durante la sua deposizione Melis è stato preciso nello spiegare le procedure, la documentazione fotografica con le quali solitamente si procede alla distruzione dei reperti. Inoltre gli artificieri ricevono un indennizzo quando distruggono, previa autorizzazione, prove processuali. Nel caso delle due molotov della Diaz, invece, nessuna nota, nessuna foto e nessun indennizzo.
Le bottiglie, riconosciute come prova falsa solo nel giugno 2002, quando si scoprì che anziché essere rinvenute alla Diaz erano state ritrovate in corso Italia, risultano evaporate. Ne parla perfino l'inglese Bbc, ma il caso non si risolve. L'inchiesta interna della questura genovese risulta affrettata e allora la procura apre un fascicolo contro ignoti e comincia ad ascoltare tutti gli artificieri, gli uomini della Digos di Genova e chiunque, anche in passato, avesse potuto avere a che fare con le bottiglie: l'ipotesi della distruzione dolosa accidentale non convince i pm. In mezzo alle intercettazioni e alle indagini sul caso ci finiscono proprio Mortola, Colucci e De Gennaro.