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[processo Perugini] G8, il giorno della vergogna

La Repubblica, 22.12.2005
G8, il giorno della vergogna
In aula il minorenne inerme su cui si era accanita la polizia

Marco allora aveva quindici anni. Il suo pestaggio, violentissimo e senza alcuna motivazione, era stato immortalato dalle telecamere

Sul televisore scorrono le immagini di quattro anni fa. C'è un gruppo di uomini, alcuni con caschi e manganelli, che senza alcun motivo, se non quello di un inspiegabile rancore, si accaniscono su un ragazzino con il volto insanguinato e un occhio trasformato in un pallone da un enorme ematoma. Marco M. che il 21 luglio del 2001 aveva 15 anni, stringe con le mani il microfono e dice: «Si, quello sono io». Non servono altre domande né al pm Francesco Albini Cardona, né ai giudici del tribunale, né ai difensori dei poliziotti che anche oggi non sono presenti in aula.
Marco torna a sedersi dietro al suo avvocato Mario Stagliano. «Altro che emozionato, le mani mi sudavano che quasi mi scivolava il microfono, l'intera sequenza, certe immagini non le avevo mai viste. Vabbè adesso me ne vado all'Acquario e poi faccio un giro nel centro storico. Questa cosa andava fatta e l'ho fatta».
Il processo nel quale è parte offesa parte offesa vede come imputati per lesioni e falso ideologico il vice-questore Alessandro Perugini, di recente promosso a primo dirigente, all'epoca numero 2 della Digos, indagato anche per le violenze e i soprusi nella caserma di Bolzaneto; i sottufficiali della Digos Antonio Del Giacco, Sebastiano Pinzone, Enzo Raschellà e il padovano Luca Mantovani. Uno dei poliziotti picchiatori, l'ispettore Giuseppe De Rosa, è già stato condannato con rito abbreviato ad un anno e otto mesi.
La vicenda è nota ed è diventata uno dei molti simboli negativi del tragico G8 genovese. Marco studente di Ostia viene a Genova per manifestare contro la globalizzazione. In via Barabino davanti alla questura il corteo fronteggia il cordone delle forze dell'ordine. C'è qualche lancio di sassi ma quando un gruppo di giovani improvvisa un sit-in pacifico al situazione è calma.
«Ho visto lo schieramento degli agenti muoversi verso di noi - ha raccontato ai giudici durante la sua deposizione - Stavo per alzarmi quando mi sono piombati addosso alle spalle poliziotti in borghese e in divisa. Io vedevo solo dei jeans e delle scarpe perché non riuscivo ad alzarmi da terra. Mi hanno picchiato con calci e manganelli. I1 primo colpo lo ricordo benissimo: l'ho ricevuto in testa e ho sentito come una scossa nel cervello. La colluttazione non è stata lunga ma molto intensa
sì. Successivamente ho ricevuto cure specialistiche all'occhio oltre ai punti di sutura sotto la palpebra e sulla testa».
Finita la testimonianza Marco racconta che «vorrei ringraziare quel medico del 118 (la squadra che intervenne era coordinata dal dottor Paolo Cremonesi, ndr) che mi strappò dalle mani dei poliziotti altrimenti non so come sarebbe andata a finire».
Arrivando davanti all'aula dell'udienza, ieri mattina, Marco si guardava intorno alla ricerca di Perugini, immortalato quel giorno mentre in jeans e Lacoste gia1la prende la rincorsa e sferra un calcione al minorenne inginocchiato a terra. E qualche ora più tardi il verbale d'arresto contesterà la resistenza a pubblico ufficiale (tutte le accuse contro il ragazzo romano sono finite in un proscioglimento). «Ma c'è Perugini? - chiede ai giornalisti - No? Non si fanno mai vedere? Si capisce; intanto la carriera la fanno lo stesso».
Un destino comune, quello della carriera, a quasi tutti gli alti funzionari coinvolti nelle inchieste del G8. Per averne la prova ieri mattina bastava scendere quattro piani e raggiungere l'aula bunker dove si celebra il processo per l'irruzione e i falsi della Diaz.
Anche lì, poliziotti accusati di aver picchiato a sangue ragazzi inermi ed essersi inventati prove fasulle, sono oggi ai vertici di importanti questure o di apparati fondamentali dell'intelligence italiana. Ma proprio come Marco M., ieri mattina tre ragazzi spagnoli brutalizzati nella notte cilena del G8 sono venuti a Genova a testimoniare. Perché anche per loro "questa cosa andava fatta".
MARCO PREVE